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Fratture

Il discorso di Nico risuonava ancora nei corridoi della miniera, trasmesso in differita su schermi impolverati, altoparlanti gracchianti, tablet crepati.

“Benvenuti. Siamo ancora qui. E non abbiamo finito.”

Parole semplici, ma in quell’istante bastarono a tenere insieme le crepe.

Perché la frattura c’era. E si allargava.

C’era chi aveva smesso di parlare. Chi si spostava in gruppo anche per andare a prendere l’acqua. Chi evitava ogni contatto visivo. E chi controllava due volte ogni comunicazione ricevuta. Le telecamere interne, i log di sistema, le schede dei turni: tutto veniva rivisto e rivisto ancora.

Il Tribunale, costruito sulla fiducia, era diventato una zona grigia.

Eloise era ancora in coma. Nessun miglioramento. Nessun peggioramento. Un tempo sospeso, fatto di luci artificiali e flebo silenziose.

Lyra passava ore seduta fuori dalla stanza. A volte dentro. A volte davanti a uno schermo, fissando in silenzio le trasmissioni. Parlava poco. Sorrideva mai. Dormiva meno.

Tutti lo notavano. Nessuno osava parlarne.

Nico stava in piedi sopra una cassa metallica nel centro operativo. Intorno a lui, una trentina di persone: tecnici, volontari, trasmettitori, archivisti. Tutti stanchi. Alcuni infastiditi. Qualcuno già pronto ad alzarsi e uscire. Ma lui parlò lo stesso.

"Ok. Siamo tutti un po’ più sospettosi. Un po’ più silenziosi. Un po’ più… rotti, diciamolo. E sapete che vi dico? È normale."

Una pausa. Poi sollevò le mani.

"Non siamo eroi da graphic novel. Nessuno di noi ha un piano perfetto. Abbiamo un centro operativo che ogni tanto puzza di umido, dormiamo su materassi da campeggio e il nostro firewall è tenuto insieme da una combinazione di fede, caffeina e cavi recuperati."

Un paio di sorrisi. Qualcuno sbuffò. Ma nessuno uscì.

"Ci hanno colpiti. Dall’interno. E ancora non sappiamo chi ha aperto quella porta. Ma se iniziamo a sospettare di chi ci sta accanto, se smettiamo di guardarci negli occhi, allora il loro lavoro è finito. Senza sparare un altro colpo."

Tirò fuori una vecchia fotografia plastificata. Ritraeva lui da piccolo, insieme a sua madre, dietro una rete metallica. La mostrò.

"Questa è l’ultima foto che ho di lei. Il giorno prima che la portassero via. Nessuno ha mai chiesto dove fosse finita. Nessuno ha processato chi l’ha fatta sparire. Nessuno ha detto una parola."

Il tono si abbassò. Non più ironico. Ma neanche patetico. Solo netto.

"Il Tribunale è nato per questo. Perché la gente non scompaia nel silenzio. Perché ogni storia, anche la più piccola, sia ascoltata. E giudicata da chi ha il diritto di farlo: il popolo."

Guardò il gruppo. Occhi incerti. Occhi arrabbiati. Ma occhi svegli.

"Quindi sì: potete dubitare. Potete arrabbiarvi. Ma non potete mollare. Non adesso. Non quando ogni voce conta. E ogni streaming tiene viva una parte del mondo."

Scese dalla cassa.

"E adesso… chi si occupa della manutenzione antenna 3? Perché se domani ci guardano dall’Argentina e non sentono nulla, è un problema."

Un tecnico alzò la mano. Un altro rise. Poi altri due si avvicinarono.

E il centro riprese a respirare.

Fu allora che arrivò lui.

Si chiamava Elyas. Apparve una mattina, dopo l’ultimo blackout parziale. Diceva di provenire dal Nodo 12, di aver fatto parte delle “squadre mobili” durante i primi processi. Aveva documenti, codici d’accesso e un invito firmato da Eloise — inviato prima dell’attacco.

“Mi ha chiamato lei. Dovevo occuparmi dei protocolli di sicurezza.”

Parlava a bassa voce. Mai una parola di troppo. Sempre disponibile. Sempre preciso. Mai invadente. Eppure, riusciva a esserci sempre quando serviva.

Quando Elyas si avvicinò, Lyra non si irrigidì. Strano. Non succedeva da settimane. Lui non chiese nulla. Solo le porse un caffè caldo, con mani che non tremavano.

“Niente parole oggi?”

“Solo caffè,” rispose lei. E prese la tazza.

Fu lui a offrirle quel caffè dopo che era rimasta per cinque ore davanti alla sala operatoria.

Nei giorni seguenti, Elyas divenne una presenza costante. Un aiuto silenzioso. Un nodo che sembrava tenere insieme i pezzi. Sempre un passo dietro Lyra, ma mai invadente. Mai troppo vicino. Eppure, sempre lì.

E Lyra si fidava. Non solo non sospettava nulla: si fidava davvero. Di quella calma, di quel modo pacato di esserci senza chiedere. Era come se una parte di lei avesse smesso di combattere, almeno per un momento.

Nico, invece, non lo perdeva d’occhio.

“È troppo perfetto,” disse sottovoce una sera, mentre scriveva i titoli per la prossima diretta. “Troppo calmo. Troppo... presente.”

Lyra non rispose. Ma qualcosa, nel modo in cui abbassò lo sguardo, suggeriva che, in fondo, voleva credergli. Credergli sul serio. Perché era stanca.

Nico, intanto, faceva il giocoliere con le emozioni altrui. Raccontava aneddoti assurdi nei momenti di silenzio più tesi. Leggende urbane. Bug di sistema trasformati in barzellette. Aveva soprannominato la sala server “La sauna dei pacchetti” e chiamava i cablaggi “spaghetti al protocollo”.

Un giorno, mentre tre volontari discutevano animatamente sul da farsi, si mise in mezzo con una banana e un cavo Ethernet in mano.

“Ragazzi, se dobbiamo dividerci, almeno fatelo con stile. Uno prende la frutta, l’altro la fibra.”

Qualcuno rise. E in quel momento il silenzio si allentò.

Era quello il suo lavoro adesso: tenere acceso il fuoco quando tutti volevano spegnerlo.

Ma la domanda tornava, ogni notte:

Chi era il terzo?

E Nico sapeva che, se avessero sbagliato anche stavolta… Non ci sarebbe stata una prossima.