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La caverna degli specchi

Da quando avevano smascherato Elian, ogni parola veniva riletta due volte. Ogni trasmissione, ogni dato, ogni collegamento incrociato con cura maniacale. L’ombra del sospetto non era più su un volto solo: era ovunque.

Alcuni volontari iniziarono a dormire lontano dal centro. Altri parlavano sottovoce anche nelle stanze protette. C’era chi temeva microspie. Chi svuotava le tasche prima di ogni riunione. Chi, semplicemente, si era stancato di avere paura. E se ne andava.

Il nuovo quartier generale del Tribunale era una vecchia miniera abbandonata, riconvertita in rifugio operativo. Corridoi scavati nella roccia, un labirinto di metallo e polvere, antenne ricavate da materiali di scarto, generatori alimentati a biodiesel nascosti tra le gallerie. Nessun segnale costante, solo impulsi intermittenti, calcolati per non farsi localizzare.

Era un luogo scomodo. Ma sicuro.

Lyra non parlava molto. Scriveva. Piccoli frammenti, pensieri. Li chiamava “semi di memoria”. Li affidava a nodi secondari con la richiesta di trasmetterli nei momenti più inattesi. Una voce sussurrata tra pubblicità e previsioni del tempo.

“Ogni bugia è una ruggine nella memoria.” “Il silenzio non è neutrale.” “Non è giustizia. È memoria.”

Alcuni ridevano. Altri copiavano su carta. Una donna in una libreria raccontò di averli trovati in mezzo a un romanzo usato. Un bambino li scriveva col gesso sui marciapiedi.

Nel frattempo, le richieste di processo aumentavano. La rete riceveva segnalazioni continue: nomi, documenti, denunce, interviste. Ma non tutte erano affidabili. La contraffazione aumentava. C’era chi cercava di usare il Tribunale come vendetta personale. O come propaganda.

Il gruppo di Eloise Mahr iniziò a costruire un sistema di verifica a più livelli. Le “stanze silenziose”: piccoli collettivi locali che potevano confermare o smentire ogni fatto sulla base di fonti indipendenti. Nessuno sapeva dove si trovassero. Né chi ne facesse parte. Ma funzionavano.

Un giorno arrivarono due segnalazioni molto diverse. Ma convergenti. Due nomi, due storie, due volti della stessa struttura: sfruttamento e complicità.

Il Tribunale decise per una convocazione doppia.

“Convocazione ufficiale n. 003 Nomi: Armand Leclerq / Gaël Rennard Settori: Logistica globale / Sanità privata Tempo per rispondere: 24 ore”

Risposero. Entrambi. Puntuali. In video. Educati. Sicuri di sé.

“Siamo pronti a chiarire tutto. Non abbiamo nulla da nascondere.”

La giuria fu estratta come sempre. Nessun volto noto. Solo cittadini.

Armand prese la parola. Parlò con voce sicura, difendendo la propria rete di imprese come “strumento di efficienza”. Sostenne che “dare lavoro, anche precario, è meglio di non darne affatto”. Mostrò grafici, dati, curve di occupazione.

Gaël lo seguì. Meno grafici, più linguaggio diplomatico. “Ho operato entro la legalità,” disse. “Tutto ciò che ho fatto è stato autorizzato.”

Ma le prove presentate dal Tribunale erano diverse.

Contratti spezzettati. Turni massacranti. Cooperative fantasma. Falsi licenziamenti. TFR restituiti in contanti per conservare il lavoro. Accordi di non divulgazione imposti con il ricatto della fame.

“È vero che i lavoratori venivano licenziati ogni sei mesi per essere riassunti con un nome aziendale diverso?” chiese un giovane giurato.

Armand annuì. “Era legale. Tutti i miei consulenti lo confermano.”

“E che venivano costretti a restituire in contanti il TFR?” insistette un’altra donna.

“Non ho mai ordinato nulla del genere. Forse qualcuno nei livelli intermedi…”

Un anziano aggiunse: “Lei, Rennard, ha cambiato la ragione sociale dell’impresa. Ha licenziato tutti. Poi ci ha detto che ci avrebbe riassunti… ma solo se avessimo restituito in contanti il TFR. ‘Oppure ve lo tenete — e non lavorate più’, ci disse.”

Gaël sospirò. “Sono pratiche diffuse. Altri fanno di peggio.”

Armand, invece, sorrise. “Altri fanno peggio. Io, almeno, do stabilità. Pagano l’affitto, no? Meglio con me che a casa a lamentarsi.”

Silenzio. Poi una donna della giuria, con voce rotta: “Mio fratello è morto di infarto dopo due turni da dodici ore. Aveva appena restituito il TFR. In contanti. A uno dei suoi capi.”

Lyra parlò. “Questo non è un tribunale di vendetta. Ma è memoria. E la memoria ha bisogno di giustizia.”

“Giustizia? Per cosa?” sbottò Armand. “Ho rispettato le leggi. Le piego, sì. Ma non le rompo.”

“Lei ha venduto il bisogno,” disse un’altra giurata a Gaël. “E l’ha chiamato opportunità.”

Il voto fu lungo. Più del solito. Alcuni esitavano. Non erano dittatori. Non erano assassini. Ma in quelle mani pulite c’erano centinaia di vite svuotate.

Il verdetto fu doppio.

Armand Leclerq: colpevole di manipolazione sistemica della legalità a fini personali. Sentenza: Memoria Attiva. Ogni testimonianza contro di lui sarebbe resa pubblica, indicizzata, collegata ai suoi dati nei motori di ricerca. Ogni suo contratto aziendale confrontabile. Il suo nome: marchiato da una dicitura chiara — “Ha tratto profitto dall’umiliazione.”

Gaël Rennard: colpevole di sfruttamento strutturale e pratiche coercitive. Sentenza: Depotenziamento Etico. Ogni sua impresa avrebbe dovuto esibire un contrassegno digitale: “Soggetto a memoria etica diffusa.” Nessun divieto formale. Ma ogni cliente avrebbe saputo. Ogni collaboratore avrebbe ricordato.

Pochi giorni dopo, Armand abbandonò ogni incarico. Gaël tentò di ripartire altrove. Ma la memoria li seguiva.

E proprio allora, su una frequenza disturbata, una voce apparve:

“Il processo non è finito. Alcuni nomi… restano in attesa.”

Era la Strega.

Nessuno sapeva da dove avesse parlato. Ma il Tribunale, senza sosta, prese nota.