Ombre
Non c’erano nomi.
Non c’erano volti.
Solo una stanza buia, telecamere schermate e voci filtrate.
Un consiglio d’emergenza, convocato in segreto.
I presenti erano otto. Alcuni da continenti diversi. Altri seduti nella stessa città.
Tutti con lo stesso problema.
“Il Tribunale è diventato pericoloso.”
La frase risuonò tra gli altoparlanti ovattati. Una voce maschile, invecchiata e impaziente.
“Abbiamo visto cosa è successo. Un arresto trasmesso in diretta. La folla in delirio. Hanno creato una religione della colpa.”
Un’altra voce, femminile, spezzata da un accento del nord:
“I nostri progetti sono bloccati. Gli appalti che gestivamo? Persi. I contratti? Saltati. Chiunque abbia avuto anche solo un sospetto di connessione con certe figure ora è marchiato dalla loro Memoria.”
“Anche gli operai cominciano a rifiutare. Dicono di non voler finire in diretta mondiale per una paga sotto il minimo. Non assumiamo più nessuno.”
“E chi resta... ci costa il doppio.”
Un’altra voce, più calma, più misurata:
“La loro rete cresce. Ogni nodo, ogni testimonianza, ogni processo aumenta la loro influenza. Non sono più solo un gruppo di idealisti. Sono una struttura. E sono radicati.”
Silenzio.
Poi:
“Proposte?”
Un fruscio. Un uomo dal tono militaresco parlò:
“Se li attacchiamo frontalmente, diventano martiri. Ogni morte rafforza il simbolo.”
“Allora spariamogli al simbolo,” ribatté un altro. “Rendiamoli ridicoli. Togliamogli la credibilità. Una macchia, una menzogna, una divisione interna.”
Una risata breve.
“Ci hanno provato. E abbiamo perso l’unico infiltrato credibile che avevamo. Ora il nome Elyas è diventato una bandiera per loro. Lo hanno trasformato in un esempio.”
“E allora li isoliamo.”
Questa volta fu una voce che non aveva ancora parlato. Giovane. Fredda.
“Li costringiamo a chiudersi in difesa. Li mettiamo nella posizione di dover scegliere tra continuare a trasmettere o sopravvivere.”
“E poi?”
“Poi aspettiamo.”
Un silenzio d’assenso.
“Una goccia ogni giorno. Un sospetto. Un dubbio. Un blocco. Nessuna condanna ufficiale. Solo silenzi.”
Fu allora che una voce diversa si fece sentire.
Più bassa. Maschile. Giovane. Infastidita.
“Mi chiedo solo… se sia il caso. Una repressione troppo visibile potrebbe scatenare l’effetto opposto.”
Una risata secca lo zittì.
“Hai paura della gente?”
“Ho paura di cosa può diventare la gente se li trasformiamo tutti in martiri.”
Un silenzio gelido seguì. Poi la voce rauca tagliò l’aria:
“Allora non chiamarla repressione. Chiamala necessità. La stabilità ha un prezzo.”
“E se questo non basta?” chiese un altro, la voce graffiata dall’abitudine al comando.
“Allora smettiamo di parlare di rischio, e iniziamo a parlare di soluzione. Definitiva.”
Le luci della stanza rimasero basse.
Le connessioni si chiusero, una a una.
Solo l’ultima restò online.
Un respiro.
Poi una voce conclusiva:
“La memoria è una bella cosa. Ma il potere… è più antico.”
E la linea cadde.
Come una sentenza.