Skip to main content

Semi rotti

L’attacco avvenne all’alba, quando la miniera era ancora mezza addormentata.

Non ci fu esplosione, né spari. Solo un lampo di luce, una scarica elettromagnetica improvvisa, seguita dal blackout. I sensori saltarono. I backup si attivarono, ma troppo tardi. E nel caos, una figura si mosse tra le gallerie, rapida, precisa.

Lyra era nel corridoio secondario quando sentì il primo urlo. Corse.

Eloise era a terra, immobile, con il fianco dilaniato da una coltellata profonda. Il volto pallido, gli occhi semichiusi. Accanto a lei, il rumore metallico di un oggetto caduto: una piccola siringa a iniezione rapida. Veleno o sedativo, nessuno sapeva. Ma la ferita principale era il taglio netto, il sangue copioso che si allargava sul pavimento di roccia.

Un'ombra scappava giù per i tunnel. Lyra non esitò.

Corse.

La raggiunse. La figura provò a colpirla, ma Lyra schivò d’istinto, afferrò il braccio dell’aggressore e lo sbilanciò con una mossa netta. Un calcio secco allo sterno. L’altro indietreggiò, poi estrasse un coltello. Lyra ruotò sul fianco, schivò per un soffio, colpì al mento e lo sbatté contro la parete. Una testa incappucciata cadde a terra, ma si rialzò barcollando. Prima che potesse finirlo, un secondo aggressore comparve alle sue spalle.

Fu allora che capì: era un attacco coordinato.

Il secondo riuscì a colpirla di striscio alla spalla con un coltello. Dolore. Ma non cedette. Fece leva su una roccia, balzò in avanti e li mise entrambi fuori gioco con una raffica di colpi mirati, controllati, violenti quanto bastava. Uno cadde privo di sensi, l'altro cercò di strisciare via, ma fu immobilizzato.

Altri membri del Tribunale arrivarono. Allarme totale. Due feriti leggeri tra i volontari. Ma gli assalitori erano stati presi. Eloise, invece, era in condizioni critiche. Uno degli aggressori aveva il volto tumefatto, l'altro un braccio slogato: segni evidenti di uno scontro serrato.

E uno di loro… aveva un volto noto.

“È uno dei tecnici del Nodo 3,” sussurrò qualcuno. “Era con noi da settimane.”

Tradimento. Di nuovo.

Quando tornò indietro, trascinandosi, Lyra era sporca di sangue — suo e altrui. Ma camminava.
Eloise non rispondeva.

Il medico del nodo la stabilizzò il minimo indispensabile, poi autorizzò il trasporto urgente. La ferita aveva compromesso organi vitali. Eloise rischiava di morire dissanguata. Una corsa verso una clinica amica, nascosta tra le montagne. Lyra andò con lei, senza dire una parola.


Restò seduta fuori dalla sala operatoria per ore.
Il braccio fasciato, il viso livido.
Ogni tanto qualcuno le passava accanto. Un'infermiera silenziosa. Un tecnico della clinica che controllava le celle di energia. Un volontario che le lasciò una borraccia, senza parlare. Ma nessuno osava davvero avvicinarsi.

Lei non sentiva dolore. Solo gelo.
Quello che conosceva bene. Quello che le si era stretto addosso il giorno in cui le avevano detto che sua sorella non sarebbe tornata.
Anche allora, era stato così: un corridoio, una porta chiusa, un’attesa muta. Nessun boato, solo la frase piatta di un ufficiale: "È stata una detonazione accidentale. Zona non segnalata."
Tradotto: non cercate giustizia. Non disturbate.

Aveva iniziato a studiare kung-fu proprio da quel giorno.
Non per rabbia. Non per forza. Ma per non perdere più nessuno a cui voleva bene.
Perché aveva capito, con una chiarezza spietata, che nessuno sarebbe venuto a salvarli. E che restare immobili era già una sconfitta.

Chiuse gli occhi. E ricordò il giorno in cui incontrò Eloise.

Era in una stazione dismessa. Niente luce, niente segnale, solo vecchi cartelloni pubblicitari coperti da graffiti. Lei e Nico stavano cercando un punto d’accesso secondario a una rete satellitare. Doveva essere una missione veloce. Invece trovarono una donna seduta su una sedia sfondata, con un tablet spento in mano.

Era lì da ore, forse giorni.

"Ehi," aveva detto Nico, in tono cauto.
La donna alzò lo sguardo. Occhi rossi, fermi, stanchi.
"Se siete qui per scappare, non vi serve questo posto."
"Non stiamo scappando," aveva risposto Lyra.
"Allora entrate. Ma solo se siete pronti a rimanere."

Quella sera parlarono poco. Ma Lyra ricorda ancora il modo in cui Eloise la guardava: non come chi cerca alleati, ma come chi pesa ogni parola prima di lasciarla uscire.
Aveva raccontato la guerra. Senza enfasi.
Come si raccontano le fratture ossee.

"Ho perso un fratello. Non al fronte. Alla fine. Quando tornò, non riconosceva più nemmeno il suo nome. Morì tre mesi dopo, in una struttura che chiamavano centro di recupero. Lì ho capito che la guerra non finisce quando finiscono i proiettili. Finisce solo quando qualcuno la racconta."

E poi quella frase, che Lyra avrebbe portato dentro per anni:

"Non voglio vendetta. Ma se smettiamo di ricordare, quelli come lui vincono due volte."

Era quello che le aveva fatto restare.
Non la rabbia. Ma quella forma di amore che somiglia alla responsabilità.

Quando Lyra riaprì gli occhi, erano passate altre ore.
La luce nel corridoio era fioca, tremolante.
Il suo braccio pulsava. Non aveva toccato cibo. La bocca impastata. Ma nessuna voglia di alzarsi.

Poi la porta si aprì.

Il chirurgo uscì in silenzio, si tolse i guanti con un gesto lento.

"Eloise è viva. Ma in coma. Le prossime quarantotto ore saranno decisive. Se resiste, ha una possibilità."

Lyra annuì. Ma non disse nulla.
Né sollievo, né disperazione. Solo una linea diritta, tra resistenza e colpa.


Tornò alla miniera da sola.

E trovò un vuoto strano. La paura aveva lasciato posto al dubbio. Se uno degli attentatori era passato attraverso le difese, significava che conosceva la struttura. I percorsi. Gli orari. Qualcuno, forse, li aveva di nuovo traditi.

Si sedette nella sala delle trasmissioni. Guardò il canale globale.
Un nodo della Bolivia stava processando un funzionario accusato di sfruttamento minerario. La voce era tremante, la connessione instabile. Ma andavano avanti. Continuavano.

Lyra scrisse un nuovo seme di memoria:

"La paura vuole chiudere gli occhi. La memoria li tiene aperti."

Poi premette invio.
E rimase a fissare lo schermo.
In silenzio.